La fotografia e l’esperanto
Le immagini: linguaggio universale dell’umanità nei millenni?
Maggio 2023

Immaginiamo di avere davanti a noi tre fogli con del testo, il primo è in una lingua occidentale, nel nostro caso l’italiano, nel secondo, a titolo di esempio, il testo è in arabo, nel terzo in cinese.
Osservandoli la nostra attenzione viene attirata da quello al quale riusciamo a dare un senso, quindi quello della nostra lingua; gli altri due, anche se sappiamo appartenere ad un’altra lingua, sono talmente lontani dal nostro alfabeto che ci appaiono come semplici simboli grafici, dei disegni su un foglio.



Se abbiamo vicino a noi una persona di lingua araba ed una di lingua cinese, avranno la nostra stessa reazione, ciascuno riconoscerà il proprio alfabeto e vedrà come simboli grafici le altre due lingue.
Ora aggiungiamo un quarto foglio con dei pittogrammi, ecco che tutti e tre riconosceranno due dei 4 fogli, quello della propria lingua e quello dei pittogrammi.




Abbiamo aggiunto un “linguaggio”, quello dei pittogrammi, che non rientra in confini geografici di appartenza, al contrario, contiene un messaggio universale per il quale non utilizziamo un alfabeto convenzionale ma dei simboli.
Aggiungiamo ora un disegno, poi una fotografia ed il numero di immagini riconoscibili da tutti e tre aumenta e più aggiungiamo immagini, più la comunicazione diventa condivisa, supera i confini geografici avvicinandoci ad una sorta di esperanto per immagini, facendo, di conseguenza, diminuire la necessità di comprendere il testo scritto, ormai in stretta minoranza rispetto alle immagini.






Tutto questo però si scontra con il limite della convenzione, siamo cioè abituati a comunicare usando un alfabeto.
Non è però sempre così.
Ci sono molte lingue flessive come ad esempio l’italiano, nelle quali l’etomologia di molte parole ha una radice fissa ed una parte varibile (desinenza): le parole montagna, montuoso, montanaro, hanno la radice fissa MONT e una desinenza che ci permette modificare il senso della parola, di usarla al singolare o al plurale o, come nei verbi, di coniugarla.
Il cinese, ad esempio, è una lingua non flessiva, non ha cioè declinazioni, coniugazioni, plurale o singolare.
Inoltre alcuni caratteri (mi dicono che non si chiamano ideogrammi), circa il 5%, sono la stilizzazione del loro significato, di quello cioè che rappresentano, mentre tutti quelli esistenti rappresentano di volta in volta un’idea o un concetto (上=sopra, 下= sotto, 山= montagna).
Un altro esempio di simboli che rappresentano un concetto o un valore lo possiamo trovare nella matematica statistica o nei grafici, come ad esempio quelli economici, un grafico che scende o uno che sale, legati agli utili di un’azienda, ci danno percezioni opposte e significative della solidità della stessa nel mercato.
Anche nei geroglifici dell’antico Egitto, i simboli rappresentavano intere parole, addirittura potevano indicare il verso della lettura in base alla loro “direzione” se i simboli erano disegnati verso destra la lettura era da sinistra a destra e viceversa.
Per fare un esempio più chiaro, è come se in italiano, invece di scrivere: “guarda” io disegnassi due occhi, oppure li fotografassi.
Noi che comunichiamo con una lingua flessiva però, grazie alla sua parte variabile, possiamo comunicare sfumature di significato per le quali una lingua non flessiva deve ricorrere ad altri elementi come ad esempio i simboli fonetici, quelle parti della lingua scritta che indicano come pronunciare lo stesso simbolo, modificando così, nell’esempio dei due occhi, il significato dell’immagine che può essere: “guarda”, “guardiamo”, “scrutare” o anche semplicemente “occhi”, ecc.
Ora la domanda è: in quanti modi posso disegnare o fotografare due occhi? Ovviamente è una domanda retorica, il problema non è sapere in quanti modi posso fotografare due occhi ma chi sarebbe in grado di leggere le differenza nel modo sopra descritto.
Allora facciamoci un’altra domanda: tra una persona di lingua flessiva ed una di lingua non flessiva, chi apprenderebbe prima questo ipotetico modo di scrivere? Sicuramente chi è cresciuto imparando una lingua strutturata sulla base di simboli in cui significato e significante a volte si somigliano, in cui cioè la parola montagna (significante) non è scritta da un alfabeto ma da un disegno che la descrive (significante) nella sua interezza, esattamente come in una fotografia, senza cioè un insieme di consonanti e vocali.
Nella nostra cultura (occidentale), siamo molto lontani da questo tipo di comunicazione ma se proviamo ad immaginare di usarla, ci renderemo conto che la fotografia e le immagini in genere, potrebbero assolvere, in molti casi, a questo compito, esattamente come fanno i pittogrammi che troviamo sulle confezioni che compriamo quotidianamente. In fondo abbiamo imparato a leggerli, un pittogramma di pericolo non ha bisogno di parole per essere spiegato o compreso ma forse, l’esempio più calzante lo sperimentiamo quando cerchiamo di comprendere i piatti scritti, sul menù del ristorante, in una lingua che non conosciamo, pensate alla differenza tra vedere le foto dei piatti e non vederle.
Chissà se, come per il bimbo nel mito della caverna di Platone, fossimo cresciuti con l’unica certezza che a parlare siano le immagini, l’esperanto sarebbe così lontano.
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Foto di testa realizzata da Andrea Ronca. Sopra foto realizzate da Piero Leonardi.
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