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Vanità fotografica

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La vanità del fotografo e le esagerazioni dello sconfinamento

Giugno 2023

Niente paura, non parlerò di psicologia e fotografia, anche se potrebbe essere un argomento interessante.

Voglio invece parlare di un tema che, in fotografia, per molti nasce con il digitale: la post-produzione.
Ora, per chi come me viene dalla fotografia analogica, questa divisione tra pro e contro fa abbastanza sorridere.

Come spesso accande in fotografia, non ci sono nuove invenzioni ma solo aggiornamenti tecnologici; le cose da fare sono sempre quelle solo che il “progresso” ci fornisce nuove tecnologie per farle meglio e più velocemente.

“La post-produzione si faceva anche con la pellicola” ogni tanto, questa frase si sente dire o si legge sui social.
E’ vero, si faceva anche prima del digitale e iniziava dal momento in cui tiravi fuori la pellicola in bianco e nero dalla fotocamera, il tempo e il tipo di sviluppo influenzavano esposizione, grana, contrasto… cose che oggi si fanno al computer.
In fase di stampa poi si diventava dei veri e propri maghi alchimisti: si raddrizzavano le linee, si modificavano le prospettive, si schiarivano o scurivano solo alcune aree dell’immagine.

Tanti anni fa preparai un progetto per una mostra dal titolo “Sculture vive” tutto in bianco e nero stampato su 30×40, una volta esposta la carta sotto l’ingranditore, invece di mettere il foglio nello sviluppo per far apparire la fotografia, lo spennellavo con lo sviluppo solo in alcune zone, cercando così di far apparire solo alcune parti della scultura, dettagli che secondo me avrebbero raccontato da soli l’opera nella sua interezza; il resto rimaneva bianco.

Per quanto riguarda il colore la cosa non cambiava molto.
Le diapositive erano considerate una quasi intoccabile fonte di verità fotografica, una volta ad un convegno sul reportage di viaggio, dalla platea una persona iniziò a “sbraitare” verso Riccardo Venturi (World Press Photo 1997) chiedendo perchè non stesse mostrando diapositive invece del bianco e nero, lasciando intendere che il bianco e nero poteva essere “contraffatto” mentre le diapositive no.
Nulla di più falso, il mio laboratorio di fiducia mi consigliava di non portare mai a sviluppare i rullini dal mercoledì al sabato perché nel fine settimana il liquido di sviluppo nelle macchine viene sostituito e quello nuovo da il massimo dei risultati i primi due giorni della settimana, poi inizia ad esaurire la sua capacità, influenzando notevolmente il risultato in fatto di colori e contrasto. Se volessimo un risultato “alla Ghirri” potrebbe aiutarci far sviluppare i nostri rullini il venerdì sera, e poi anche le diapositive si possono stampare, con tutti gli interventi descritti sopra.
Dunque, di cosa parliamo quando demonizziamo la post produzione? Di vanità! Si, credo sia proprio questo e provo a spiegarlo.

Premesso che i software di fotoritocco non sono altro che l’evoluzione tecnologica di una camera oscura, quando ci troviamo davanti a una foto sbagliata, poco contrastata, poco satura o qualsiasi altra cosa volete, c’è photoshop, o ancora, come accaduto a McCurry, c’è un elemento di disturbo che rovina la foto, c’è photoshop, basta cancellarlo.
Ecco cosa intendo per vanità: il desiderio spasmodico di apparire bravi a tutti i costi (non nel caso di McCurry, in quel caso si tratta forse di altro), non sarebbe più serio ed efficace migliorare invece che apparire più bravi?

Quale altro motivo porterebbe un semplice fotoamatore a stravolgere la sua foto cancellando un palo della luce, una persona o cambiando i colori in modo irreale, o ancora, come fanno ormai tante app per telefonino, isolare la figura di nostra cugina da uno sfondo fatto di mucche, erba e mucchi di letame e posizionarlo nel mare smeraldo delle Seychelles se non la vanità?
Il desiderio di migliorare e la spinta ad essere migliori di altri in un determinato campo è una gran bella cosa, è forse la molla più potente che abbiamo per migliorare veramente, ma qui si tratta di barare.
Si tratta di maratoneti che, quando non li vede nessuno, prendono l’autobus, si fanno lasciare un chilometro prima del traguardo e poi vincono tra gli onori del pubblico.

Un discorso a parte va fatto per Camera Raw o qualsiasi altro programma per lo sviluppo del “negativo digitale”, quello è un passaggio obbligato senza il quale non avremmo proprio la foto, inoltre, il negativo digitale ha una range dinamica superiore a quella della pellicola e questo, a volte, si traduce in una inevitabile diminuzione del contrasto che, in qualche modo, deve essere parzialmente recuperato.

Per ottenere risultati interessanti a volte basta solo liberarsi dagli stereotipi, la fotografia ci mette a disposizione tanti strumenti che, se utilizzati per creare e non solo per scattare, ci permettono di dare sfogo alla nostra fantasia, ecco, questo è forse l’unico vero limite, la fantasia.

Nessuna delle foto presenti in questo articolo è stata realizzata con l’utilizzo di Photoshop e, tranne la foto delle mele realizzata con fotocamera digitale, tutte le altre, compresa la foto di testa, sono state fatte in studio usando una pellicola Ektacrome tra il 1985 e il 1988.
Mi viene in mente che potrei fare alcuni articoli per spiegare il percorso di realizzazione di alcune foto fatte in pellicola che sembrano invece il risultato di interventi di post-produzione.

Ovviamente non sono esente dal praticare la post-produzione, anzi, per un periodo ho anche insegnato l’utilizzo di Photoshop.
Una delle mie collezioni, Butterflower, è stata realizzata grazie ad una post-produzione incisiva ed importante: ogni foto finita è il risultato di tante foto quanti sono i papaveri presenti, più la foto del cielo.
Questo non per “difendere” la mia collezione ma per dire che la post produzione ha lo scopo di essere funzionale ad un progetto finale, non a barare su una foto fatta male in partenza.
Ma questo lo sapevate già.

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