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Percezione o realtà?

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Fotografiamo ciò che vediamo o ciò che percepiamo?

Aprile 2023

Diversamente dalla Fotografia, la pittura accompagna l’umanità da sempre ed è attraverso essa che recuperiamo la memoria di come l’uomo, nei vari periodi storici, percepiva se stesso e l’ambiente in cui viveva.

Le incisioni rupestri della Val Camonica, in Italia, sono un’ottima guida per comprendere l’evoluzione percettiva dei popoli che l’hanno abitata.
Dalle semplici rappresentazioni di grandi animali: le prede, risalenti al VII° millennio A.C. alle incisioni del V° millennio, quando divennero stanziali e, alla pratica della caccia, si affiancò l’agricoltura; le immagini iniziano a rappresentare figure umane vicine a segni geometrici come rettangoli o cerchi, che presumibilmente raffiguravano i campi coltivati, animali con aratri.
Nel I° millennio i soggetti delle incisioni cambiano radicalmente, cominciano ad essere raffigurate armi, muscolatura umana e genitali, quali simboli di virilità e superiorità eroica, forse dovuti al desiderio di potere su altre tribù e sul possesso dei territori.

Potremmo dire che anche l’iconografia religiosa del Medio Evo europeo, simbolo insieme della presenza della chiesa nell’immaginario dei popoli e del fatto che questa fosse, per i pittori, un “cliente importante”, ci aiuta a comprendere come gli artisti si adeguavano alla società (e al mercato) del momento.
Le immagini sono dunque un testimone dei tempi, non solo dell’evoluzione dell’uomo ma anche e soprattutto della sua percezione rispetto al periodo storico in cui vive.

Come per ogni manifestazione dell’ingegno umano, anche la tecnica per produrre “immagini” ha beneficiato di un’evoluzione che in questo caso è durata millenni: dalle incisioni rupestri alla Fotografia e in ultimo all’intelligenza artificiale.

Se da un lato quindi avevamo un continuo perfezionamento degli strumenti e della “manualità artigiana”, dall’altro, c’era il contesto sociale che, più o meno consapevolmente, infuenzava le immagini e, mentre la tecnica è migliorabile e tramandabile, il contesto si modificava e si modifica nel tempo.

Anche in fotografia troviamo i segni di questi cambiamenti.
Mentre agli albori l’impegno era nella ricerca della soluzione chimica più adatta a rappresentare al meglio ciò che si fotografava, con il passare degli anni la cosa cambia, i soggetti iniziarono a cambiare.
La fotografia, liberata dal peso dell’alchimia, inizia a concentrarsi sui contenuti.

Da una parte coloro che subivano il confronto con la pittura, Baudealaire la definì “il rifugio di tutti i pittori mancati…” e che, forse in cerca di una forma di riscatto, crearono quella meravigliosa corrente definita Pittorialismo, dall’altro coloro che oggi definiamo fotografi. Anche i fratelli Bragaglia, nel creare quello che conosciamo con il nome di Fotodinamismo, “subirono” l’affermazione di Marinetti, secondo il quale la pittura era dinamica e la fotografia statica.

Tornando alla storia, possiamo dire che nel 1826 o ’27, nasce la fotografia ma solo un paio di decenni dopo nascono i fotografi.
Con loro iniziamo a vedere i risultati di questa invenzione (o scoperta?).
Le foto iniziano ad apparire sui giornali a corredo degli articoli (l’Illustrierte Zeintung sembra sia stato il primo giornale a pubblicare fotografie, era il 15 marzo 1884).
Diventano la rappresentazione dei testi e, più la fotografia acquista una sua identità, più viene considerata strumento di verità: “posso mettere bugie in un articolo ma non in una foto”, sembra essere il pensiero ricorrente.
Se dunque facessimo un percorso storico legato ai soggetti e ai contenuti delle fotografie nel tempo, troveremmo qualcosa di molto simile alle incisioni rupestri dei Camuni.

Fare un’analisi storica di come i contenuti cambiano negli anni richiederebbe un intero libro, forse anche noioso, mi limito quindi a proporre delle riflessioni, rimandando, quella che secondo me è, la risposta al titolo ad un’altra chiacchierata.

Con i passare dei decenni la fotografia, o meglio, i soggetti fotografati, continuano ad adeguarsi, seguono le mode o, per meglio dire, adeguano le immagini al momento storico.

Se però la macchina fotografica analogica richiedeva la conoscenza tecnica da parte del fotografo, gli automatismi prima e le fotocamere digitali poi, danno il via ad una diffusione che, con gli smartphone, diventa un vero e proprio fenomeno di mass con la naturale conseguenza che anche la condivisione delle foto diventa di massa.
Ora tutti, tecnicamente parlando, possono fare buone fotografie e, se prima il mondo della fotografia si divideva tra un ristretto numero di appassionati, un numero ancora più ristretto di professionisti e pochi grandi maestri, oggi la platea degli appassionati è diventata così estesa da non poter essere più nemmeno identifiata come tale, ampliando, per forza di inerzia, anche quella dei professionisti. Il confine ha perso i suoi contorni, la linea di demarcazione si è trasformata in una estesa sfumatura.
Eliminato il confine proprio della conoscenza tecnica, cosa rimane a rendere riconoscibile chi fotografa attraveso le sue fotografie? La realtà sembra dirci che non c’è più nulla da dividere. Tutto è alla portata di tutti e l’unico strumento che ci rimane per renderci fotograficamente riconoscibili è la nostra personalità, fotografare dunque non più quello che vediamo ma come lo vediamo, attenzione però a non confondere questo aspetto con quello che gli influencer chiamano “Mood”, lì parliamo estetica, qui di contenuti.

La comprensione, o consapevolezza, di come percepiamo diventa determinante se vogliamo trasmettere, attraverso un’immagine, il modo in cui ci relazioniamo con il mondo e, questo percorso di comprensione, non si avvale più di conoscenza tecnica, ma di introspezione, di analisi del proprio modo di essere.

Aristotele sosteneva che possiamo desiderare l’acqua perchè abbiamo sete o per annaffiare un fiore o una pianta che diventerà cibo o ancora per lavarci. Abbiamo semplificato il suo pensiero ma la sintesi è che l’elemento è sempre lo stesso: l’acqua, quello che cambia è la percezione che abbiamo dell’acqua.

Un albero è sempre un albero, per tutti. Quando lo fotografiamo potremmo supporre di avere due possibili scelte:
1 – fotografarlo cercando di rappresentarlo al meglio.
2 – fotografare la nostra “sensazione” di albero.
Nel primo caso scegliamo il momento in cui riteniamo che la luce sia migliore, cerchiamo l’angolazione (punto di vista) che più ci piace, magari girandogli intorno per trovare lo sfondo più adatto, lo inseriamo in un contesto più ampio o cerchiamo dei dettagli. Ogni  nostro intervento è però destinato ad uno scopo, quello di mostrare la foto dell’albero a qualcuno.
Nel secondo caso, anche se il percorso è simile, cambia lo scopo finale, non più mostrare l’albero ma l’emozione che l’albero ci suscita.
Possiamo utilizzare manualmente la tecnica o affidiarci agli automatismi, applichiamo regole di composizione esattamente come facevamo prima ma ora, tutti, in questa grande platea di produttori di fotografie, abbiamo un solo strumento per non rimanere impantanati nella massificazione della fotografia, la nostra percezione del mondo.
Cambiare il nostro approccio con le foto ci permette di capire che non è la materia fine a se stessa a poter essere fotografata, ci sono anche le sensazioni individuali che questa trasmette.
Ecco che non fotografo più solo la materia ma le sensazioni che l’oggetto della mia foto mi trasmette e, qualsiasi cosa sia, è diversa da quella di tutti gli altri.

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Foto di testa tratta dalla collezione Butterflowers.
Sopra, a sinistra: collezione Pepperlife, a destra: foto dell’autore non in collezione.

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